Elogio del pensiero relativo
di ILVO DIAMANTI
NEL dibattito politico si avverte, forte e distinta, una tendenza. Tracciare confini netti, profondi, in un mondo che li ha perduti. Riaffermare un pensiero assoluto, in tempi tanto complessi e relativi. Caduto il muro di Berlino; caduta, più modestamente, la Prima Repubblica, dopo l'entusiasmo iniziale, sembra essere subentrato un clima di disorientamento, che ha incoraggiato la costruzione di nuovi muri. O, almeno, muretti. Che, perlopiù, reinventano fratture antiche. In Italia, questo percorso è più evidente che altrove. Forse perché, più che altrove, qui il crollo dei muri aveva lasciato dietro sé cumuli di macerie.
Era nell'aria da tempo, questa tentazione. Basta rammentare, nel nostro piccolo, il clima della lunga (e penosa) campagna elettorale in vista delle elezioni politiche della scorsa primavera. Impostata da Berlusconi e dalla Casa delle Libertà sulla frattura anticomunista. Tema efficace, nonostante la scomparsa del "nemico" (il comunismo), perché forniva a una parte della società italiana un motivo per schierarsi. Identificando il comunismo con il vecchio, lo statalismo, la resistenza alle domande individuali, al vento del mercato. Dall'altra parte, si opponeva, come principale linea antagonista, l'antiberlusconismo. Il richiamo alla mobilitazione contro l' imprenditore mediatico e i suoi interessi. Contro il partito e lo schieramento del Presidente. Divisioni schematiche. Dagli effetti dannosi, soprattutto per il centrosinistra.
Perché l'antiberlusconismo sancisce esplicitamente la centralità di Berlusconi. Perché il comunismo, per quanto sostanzialmente dissolto, ha un fondamento assai più solido e profondo del berlusconismo.
Negli ultimi mesi, però, l'ansia di erigere muri ha superato i confini nazionali, coinvolgendo il contesto globale. La globalizzazione stessa. Divenuta un tema centrale del dibattito politico italiano. Lacerante, dopo il vertice del G8 svoltosi a Genova e le manifestazioni del movimento che l'hanno contrastato. Globali o antiglobali: una scissione netta, profonda, che attraversa il sistema politico. E gli schieramenti, al loro interno.
Poi, da ultima, la tragedia americana. L'attentato alle Torri gemelle. Il cui crollo ha avuto lo stesso effetto del muro di Berlino. A rovescio. Perché ha aperto nuove lacerazioni. Incoraggiando la tentazione di riaprire nuove barriere, in un mondo che pensava di averle vanificate. La frattura fra Occidente e Islam, evocata dal presidente del Consiglio. Per ricalcare, probabilmente, lo schema amiconemico adottato in Italia. Sostituendo i comunisti con l'Islam. L'opposizione fra un concetto, l'Occidente, geopolitico, definito sulla base di principi storici e modelli istituzionali, peraltro variabili. E un'entità religiosa e culturale, l'Islam, come tale impossibile da identificare con un'area (l'Oriente, piuttosto che il Sud) o con un modello di Stato e di sistema politico. Un'alternativa "fra civiltà" implausibile da proporre. A meno di non riassumere l'Occidente nel fondamento cristiano - se non cattolico - piuttosto che nella cultura laica. Peraltro, gli stessi Usa si guardano bene dal marcare questa opposizione, perché insostenibile in una società multiculturale, come quella americana; e dannosa dal punto di vista geopolitico.
Nello stesso Occidente, d'altronde, la tragedia americana, al di là del dolore e della partecipazione unanime che ha suscitato ovunque, ha scavato un'altra frattura. Che investe direttamente il paese bersaglio di tanta barbarie. L'America. Divenuta, dopo la caduta del muro, unico custode e garante degli equilibri mondiali. E' il sentimento antiamericano, che aleggia non solo nei paesi arabi, ma anche in Europa. Se è vero che (indagine Swg) in Italia il 45% della popolazione ritiene che la responsabilità della tragedia di New York vada, in parte, attribuita agli Usa. Alla loro politica nello scacchiere internazionale. Un sentimento - anzi: un risentimento - inaccettabile. Che ha radici vecchie, ma significato nuovo. Perché oggi respira un'aria postideologica. Non spiegabile attraverso il "comunismo" latente nella società italiana (di cui, secondo il "pensiero assoluto", sarebbero espressione i noglobal). Tanto più oggi, che il maggiore alleato degli Usa è proprio la Russia, già capitale dell'impero comunista; guidata da un presidente, Vladimir Putin, che proviene dalla nomenklatura comunista.
Quante fratture, in un mondo dove i muri sembravano crollati. E in un paese, l'Italia, che un decennio fa si pensava di poter riformare e ricostruire su basi nuove: il dialogo, la condivisione di valori. Impostando le alternative politiche su progetti piuttosto che su ideologie. Promuovendo un consenso consapevole piuttosto che altre fedeltà "religiose".
Invece la fine delle divisioni tradizionali ha spinto gli attori politici a inventarne di nuove. Per fornire alla società nuove bussole, nuovi punti cardinali. Per contrastare il "relativismo" politico e culturale. Il peccato capitale dell'Occidente in declino.
Tuttavia non è sempre facile orientarsi, ricorrendo a bussole che pretendono di scindere nettamente alternative spesso incommensurabili. L'Occidente e l'Islam. L'America e il terrorismo. L'America e l'antiamericanismo. Il global e il noglobal. Berlusconismo e libertà. Comunismo e libertà. Non è un problema di equidistanza che si pone. Ci mancherebbe. Ma è difficile affrontare queste alternative (alcune in particolare), accettando il primato (e l'utilità) del pensiero assoluto.
Come e dove si collocherà chi è e si sente occidentale, ne condivide i valori, i principi, le istituzioni; non ha incertezze sulla lotta dura al terrorismo; ma, al tempo stesso, crede nel dialogo aperto fra culture? Chi pensa che l'Islam è una realtà complessa, in mutamento; e non sia destinato a produrre "mostri" e fondamentalismi? Come e dove si collocherà chi considera gli Usa, da sempre, un solido e stabile riferimento per la democrazia, cui l'Europa e l'Italia debbono molto, ma vorrebbe, comunque, un'Europa più forte, autonoma, capace di diventare soggetto attivo, sul piano geopolitico e culturale? Come e dove si collocherà chi non vede nella globalizzazione solo i rischi, ma anche le opportunità, per allargare la distribuzione di conoscenze e risorse? Chi la considera un processo che può essere criticato, governato diversamente, ma non demonizzato? Chi, peraltro, vede il movimento antiglobale come una realtà composita; chi, anche non condividendone le posizioni, ritiene è arbitrario ridurlo alle frange violente e ai gruppi estremi presenti al suo interno? Come e dove si collocherà chi non è comunista, ma non per questo è berlusconiano? Chi non è berlusconiano, ma non per questo è comunista?
Mi dispiace, ma di fronte ad alternative così schematiche non riesco a pormi che in modo relativamente (e forse assolutamente) relativo.
Senza, per questo, sentirmi relativista.
Fonte: Repubblica 30 settembre 2001